SEZIONE: DALLA VOCE DELLE UPANISAD. - ALLA RICERCA DEL “SÉ”. RIFLESSIONI SULLA “PARABOLA DEL CARRO” DELLE UPANISẠD E SUL “MITO DELLA BIGA ALATA” DI PLATONE, DA UNA LETTURA DI SIMONE WEIL -
“Ciò è l’essenza più fine. È il sé di tutto il mondo.
È la realtà. È il Sé. Tu sei ciò, Śvetaketu”
(Upanisạd, Chāndogya)
“Era impossibile che qualcosa avesse intelligenza ma fosse separato dall’anima (...).
Questo mondo è un essere vivente dotato di anima, di intelligenza”.
(Platone, Timeo)
“La necessità è il velo di Dio”
(Simone Weil, L’ombra e la grazia)
Cenni introduttivi
In uno dei Cahiers più emblematici non destinati al pubblico, sui quali soleva annotare anche in sanscrito i suoi pensieri più intimi e profondi, la filosofa francese Simone Weil osservava come, «se si discende in se stessi, si scopre di possedere esattamente ciò che si desidera».
Questa riflessione nasceva come noto dalla lettura degli antichi testi sacri vedici (in particolare le Upaniṣad e la Bhagavad Gītā) che dal 1941 la scrittrice andava studiando e su cui andava riflettendo (comparativamente e parallelamente al pensiero mistico, greco e cristiano), spinta in primis da una probe ricerca spirituale della “Verità”.
Prenderemo qui il pensiero filosofico della Weil, incentrato come noto sull’idea di metaxú (avverbio greco che significa “nel mezzo”, “mediazione tra”), come punto di riferimento, diretto o anche indiretto, quale “mezzo” a sua volta “intellettivo”, per permetterci di effettuare una lettura comparativa del “sé interiore”, tra il pensiero orientale (specificatamente di matrice induista) e quello occidentale (specificatamente di matrice greca).
La nostra attenzione agli input del pensiero weiliano è giustificata anche dal fatto che la scrittrice francese, prima e forse più di ogni altro pensatore occidentale, è riuscita ad individuare sotto una comune ricerca spirituale, in modo davvero peculiare ed encomiabile, assonanze e dissonanze tra le due civiltà, proprio all’insegna, come dicevamo, del famoso concetto di “metaxú” (inteso più spiritualmente come l’elemento di “mediazione”, di diverso genere, tra l’essere umano e la divinità), presente appunto, come si vedrà, sia nel pensiero vedico sia nel pensiero greco.
In modo particolare, questo breve “esercizio filosofico” (che ovviamente non vuole avere la presunzione di esprimere la verità sul complesso argomento né essere esaustivo sullo stesso ma che vuole semplicemente indagare la tematica pur se solo parzialmente, quanto più possibile alla luce delle suggestioni orientali ed occidentali), sarà condotto mediante l’osservazione speculare e diretta di alcune pagine delle antiche Upaniṣad vediche e del pensiero mistico -e misterico- platonico (quest’ultimo considerato a pieno titolo, anche dalla Weil, come il «padre della mistica occidentale»). Si tratta di pagine che riguardano, in modo particolare, l’esposizione dottrinale della metempsicosi e dell’emblematico e complesso rapporto dell’anima con la materialità corporale e con Dio.
L’anima di Dio nel mondo, ātman di Brahman
Le pagine di Platone e delle Upaniṣad che trattano del cosiddetto “sé interiore” (nel pensiero vedico ātman, nel pensiero greco “anima”) e che, come vedremo, parlano anche del suo rapporto con il cosiddetto “Sé superiore” (nel pensiero vedico Paramātman, nel pensiero platonico Demiurgo) o in altri termini, più consoni alla nostra cultura occidentale contemporanea, che trattano del rapportodell’anima con il corpo umano e con Dio, fanno riferimento a due famosi miti, a ben vedere molto simili, narrati rispettivamente nella Kaṭha Upaniṣad (risalente, molto probabilmente, al VI-V secolo a.C.) e nel quasi ad essa contemporaneo Fedro platonico (risalente al V secolo a.C.). Essi trattano, come noto, della trasmigrazione dell’ anima (o ātman) “oltre” l’avvenuta morte corporale, attraverso la sua ripetuta reincarnazione (metempsicosi) nei vari corpi ad essa successivi (come vedremo, secondo logiche e motivazioni specifiche di vario genere, legate alla cosiddetta “retribuzione karmica”) e dunque riguardano, di conseguenza, la sua immortalità, di là della morte materiale. Nella descrizione della trasmigrazione dell’anima, inoltre, essi trattano anche della sua costituzione “sostanziale” e della particolare “condizione” in cui, una volta incarnatasi l’anima nel corpo, essa viene a trovarsi, a contatto con la mente cosiddetta “ordinaria” e con i sensi umani di cui, tuttavia, in entrambe le visioni del mondo, ogni individuo “non solo” e dunque “anche” (in modo pertanto relativo e non assoluto) si costituisce.
«Riconosci il sé come il viaggiatore in un carro. Il corpo è il carro. L’intelletto è il cocchiere, la mente (...) le redini. I sensi, così si dice, sono i cavalli; gli oggetti dei sensi sono il terreno; l’insieme di sé, mente e sensi i saggi chiamano ‘colui che prova piacere’. I sensi di colui che non comprende, la cui mente è instabile, sono controllati come cavalli bizzarri. Ma i sensi di colui che comprende, la cui mente è stabile, sono ben controllati come cavalli docili»;
e così, analogamente, il Fedro platonico descrive:
«Si immagini l’anima simile a una forza costituita per sua natura da una biga alata e da un auriga. I cavalli e gli aurighi degli dèi sono tutti buoni e nati da buoni, quelli degli altri sono misti. E innanzitutto l’auriga che è in noi guida un carro a due, poi dei due cavalli uno è bello, buono e nato da cavalli d’ugual specie, l’altro è contrario e nato da stirpe contraria; perciò la guida, per quanto ci riguarda, è di necessità difficile e molesta».
Come sappiamo, continuando a leggere il mito platonico della “Biga alata”, ciascun’anima, viaggiando in un carro verso l’Iperuranio o il “cielo divino” (il cosiddetto “Mondo delle idee” dove tutti i principi, appunto, sono contemplabili in modo perfetto ed assoluto, in quanto espressione dell’ “in Sé”cosmico), trainata in questo suo viaggiare dal cavallo meno impulsivo (quello bianco), ad un certo punto, a causa dell’imbizzarrimento dell’altro cavallo (quello nero) e non essendo più in grado di controllare la traiettoria del suo viaggio, cade dal carro alato sulla terra e si reincarna in un corpo. Prima di ogni altra cosa, la narrazione del mito platonico ci descrive ed evidenzia quindi la qualità di cui, secondo il filosofo greco, l’anima si costituisce, tripartita in: anima concupiscibile (la parte istintiva dell’anima, raffigurata dal ribelle cavallo nero), anima irascibile (la parte emotiva dell’anima, più spirituale rispetto alla precedente, raffigurata dal cavallo bianco) e anima razionale (la parte intellettiva dell’anima, raffigurata dall’auriga, che dovrebbe governare e guidare le altre due parti). Come noto, questa esposizione platonica della struttura “interna” e allo stesso tempo “completa” dell’anima e, con essa, della metempsicosi che causalmente (o karmicamente, appunto, per il pensiero yogico) si verificherebbe di corpo in corpo, nasce culturalmente dall’influenza, in Platone, della cosiddetta “Religione misterica”, di diversa matrice filosofica (eleusina, orfico- pitagorica, apollinea e dionisiaca) e come altresì noto, la “Religione misterica” greca, nelle sue differenti diramazioni successive e specificazioni, risale originariamente al pensiero orientale. Dall’osservazione diretta dei due miti, infatti, è facile rilevare come anche le due narrazioni evidenzino alcuni elementi speculativi e risolutivi “comuni”, tanto che, come sostiene anche la stessa Simone Weil nei suoi lavori più prettamente mistici, essi esprimono forse non solo un idem sentire spirituale comune, ma testimonino anche la possibilità di un effettivo collegamento avvenuto tra le due antiche civiltà. In modo particolare sia Platone sia le Upaniṣad tentano analogamente di spiegare, assieme all’affermazione della metempsicosi, la duplice natura che costituisce l’essere umano e tutto il creato esistente, dotato secondo Platone di anima e di corpo (e sviluppatosi nel “mondo della natura” quale espressione del cosiddetto “mondo delle idee”), o dotato, secondo le Upaniṣad yogiche e la dottrina filosofica del Sāṁkhya ad esse necessariamente collegata (evidenziando con ciò l’unità dei due percorsi speculativi filosofici, come recita la stessa posteriore Baghavad Gītā), di prakṛti (materia, non-sé, sostanza) e di puruṣa (spirito, sé, essenza).
Entrambi i punti di vista filosofici, platonico e vedico, ammettono, dunque, all’unisono l’inevitabile presenza, persistente ed immortale, non solo nell’uomo ma anche in tutto l’esistente creato, di quella “goccia” del divino creatore, di quella scintilla divina che, appunto, potremmo definire anche come “sé” o “consapevolezza interiore”. Per le suindicate dottrine, infatti, questa presenza del sé interiore è espressione diretta e sostanziale del “Sé superiore”, del cioè cosiddetto ātman di Brahman (secondo la cultura vedica), o della cosiddetta “anima del mondo” del Demiurgo (secondo il pensiero misterico e in via più particolare platonico). A proposito dell’ātman, un famoso passo della Bhagavad Gītā, sottolinea, per bocca dell’avatāra di Visnu Kṛṣṇa (come noto auriga spirituale di Arjuna, sul carro da quest’ultimo guidato per il combattimento), come «l’anima (il Sé) (che ha preso sede) nel corpo di ciascuno (...) è eterna e non può mai essere uccisa».
Questa dottrina dell’immortalità dell’anima, esposta in Occidente da Platone, viene sviluppata dal filosofo non solo nel Fedro ma anche nel Fedone, laddove si narrerà e si discuterà degli ultimi momenti di vita di Socrate. Sempre secondo la Weil, l’affermazione greca dell’immortalità dell’anima, legata alla sostanza qualitativa divina che la costituisce, verrà poi successivamente ripresa, attraverso i pensatori più vicini alle “religioni misteriche”greche (in primis Platone ma si pensi anche, ad esempio, a Eraclito e a Pitagora), da altri pensieri spirituali e religiosi ad esse successivi, come ad esempio i pensatori del cristianesimo.
Una visione trascendentale dell’uomo che, del resto, come accennavamo, pone appunto in evidenza la presenza dell’anima non solo negli esseri umani ma anche (ovviamente a diversi gradi e modalità) negli altri esseri viventi ed in tutte le altre cose create, come lo stesso Platone, ancora analogamente al sistema filosofico indù del Sāṁkhya, sostiene bene nel suo Timeo o “Mito della creazione”, parlando di “Anima del mondo”, immessa dal divino nella (e con la) creazione.
Ciò significa che, per entrambe le culture, non solo tutta la materia esistente nel creato è espressione diretta dello “spirito creatore” (che appunto è ātman e allo stesso tempo essenzialmente Brahman, per utilizzare l’espressione vedica) ma, medesimamente, tale “spirito creatore” si cela anche sempre “oltre” essa, come sosteneva Platone parlando duplicemente del mondo della natura, “brutta copia” del mondo delle idee.
A tal proposito, il pensiero yogico della tradizione Advaita Vedānta, più chiaramente ed approfonditamente sostiene a gran forza l’esistenza “non-duale” della realtà, nel senso che tutto ciò che esiste è velato dall’illusione dell’apparenza (Maya) ed appartiene sostanzialmente ad un’unica essenza di fondo, che appunto si cela dietro di essa. In altri termini, la realtà materiale è solo una espressione, una “parvenza sensoriale” dell’Essente creatore che dunque si nasconderebbe sempre dietro e dentro la materialità stessa; una realtà materiale, quindi, quella conosciuta “sensorialmente”, che non è affatto staccata ed indipendente dalla Realtà spirituale, come si potrebbe pensare, ma che è, al contrario, unita ad essa in quanto sua diretta espressione ed in quanto suo costante “contenitore”.
Se la realtà materiale (prakṛti) venisse al contrario osservata e vissuta dall’uomo in modo esclusivamente auto-referenziale, essa gli apparirebbe per ciò che è, ossia inconsistente, vuota, illusoria, caduca, falsa ed espressione finita e mortale, mentre ciò che si cela effettivamente dietro e dentro di essa (ossia l’“Anima del mondo” per Platone, l“Ātman” o il puruṣa per il pensiero vedico) è consistente, pieno, vero, espressione infinita ed immortale del divino creatore che, attraverso il suo spirito, vive “oltre” la morte della materialità stessa. Rispetto a ciò che si cela dietro la materialità, allora, l’apparenza è appunto fortemente ingannevole. Com’è stato ben osservato, il creato è dunque un mero «mondo dei nomi e delle forme (...), un miraggio» al quale, appunto, occorre dare «il giusto posto nel contesto delle cose». Ma come si può conoscere bene la prakṛti (in altri termini, la materia), come si può cioè ben individuarla e definirla e di conseguenza conoscere, individuare e ben definire anche “l’altra Realtà” o per meglio dire “la vera Realtà” (cioè puruṣa, l’essenza spirituale o “Anima del mondo”)? E in che rapporto stanno tra di loro le due “realtà”, quella falsa e quella vera?
Proprio riferendoci esplicitamente ad una possibile differente visione e dimensione umana, potremmo dire più “sottile”, attenta e completa rispetto a ciò che meramente appare solo a prima vista (ossia, in altri termini, abbracciando una visione legata all’individuazione di quel qualcosa denominato puruśa o “Anima del mondo”, una visione che cioè vada “oltre” la sola prakṛti o parvenza sensoriale della materia), inevitabilmente le suindicate domande, legate al loro rapporto, comportano un’indagine più mirata e puntuale, connessa alla presenza del sé nel creato e alla sua origine. Ammesso che il sé del creato (puruṣa), come viene sostenuto a gran forza sia dal pensiero vedico sia dal menzionato pensiero greco, sia stato originato dal Sé universale, la presenza del Sé universale nel sé particolare suscita inoltre e di conseguenza, alcune domande topiche, a cui nel tempo hanno cercato di rispondere i numerosi pensatori religiosi, sia del pensiero vedico (nelle sue molteplici scuole e sotto-scuole), sia del pensiero greco.Tali quesiti potrebbero in realtà chiarirci meglio anche il rapporto tra puruṣa e prakṛti (per utilizzare i termini vedici), materia e “Anima del mondo” (per utilizzare il linguaggio platonico) ed è per questo motivo che non possiamo esimerci dal porceli in questa sede.
In primo luogo ci chiediamo specificatamente se la qualità (ma con essa anche la quantità) del Sé universale nel sé particolare sia variabile nel tempo, all’interno dello stesso genere sostanziale, passando ad esempio di essere umano in essere umano, oppure se essa sostanzialmente sia sempre la medesima, cioè il sé interiore abbia in sostanza sempre le medesime caratteristiche sia spazialmente, tra gli esseri umani, sia a-temporalmente negli gli esseri umani, ovviamente per ogni specie esistente nel creato.
E inoltre, in diretto collegamento a tale quesito, ci chiediamo anche se questa quiddità dell’ “ātman di Brahman” (il cosiddetto Sé superiore o Paramātman) si sostanzializzi poi tutta nell’ātman dei singoli individui e del creato oppure se Brahman e il suo ātman universale non siano sì presenti totalmente nel sé particolare ma poi non si riducano solo ad esso, avendo il creato, nella sua sostanza costitutiva, necessariamente “in parte” (in parte perché la natura si costituisce anche ma non solo di puruṣa, essendoci anche la prakṛti) o in “tutto” (in tutto perché sia puruṣa sia prakṛti sono sue derivazioni) del suo creatore divino ma, al contrario, avendo il creatore, quale principio appunto originario costitutivo e formativo, non necessariamente in “parte” o “tutto” del creato che Egli stesso ha forgiato (posizione filosofica che, del resto, condividiamo). Sostanzialmente dunque, come ci chiedevamo all’inizio, in che rapporto stanno tra di loro, nel creatom puruṣa e prakṛti e, riallacciandoci anche al secondo quesito, in che rapporto stanno poi tra di loro creato e creatore?
Il primo quesito è complicato dal problema dell’identificazione effettiva, nel creato, del sé interiore (ātman, puruṣa o “anima del mondo”, che dir si voglia), della sua cioè netta e chiara identificazione sostanziale, di là della materialità stessa e delle sue molteplici espressioni (che, come dicevamo, assieme all’ātman costituiscono appunto “anche” l’essere vivente e il creato) e dunque, potremmo anche dire, di là dell’identificazione autentica e consequenziale delle sue “qualità imperiture”. Come possiamo identificare e definire bene l’ātman “oltre” la materialità dei sensi, il puruṣa “oltre” la prakṛti, l’“Anima del mondo”platonica “oltre” la materia, l’essenza oltre la sostanza? E possiamo conoscere davvero qualcosa che vada “oltre” l’Ente manifestato?
Specificatamente, concentrandoci sull’individuo (la cui etimologia originaria, significa come noto “in-dividuus tra” anima e corpo), ci chiediamo se, ad esempio, la sua creatività, la sua fantasia e gli altri suoi elementi costitutivi, caratterizzanti in via generale le sue qualità interiori soggettive, uniche ed irripetibili, siano espressione diretta proprio del sé interiore o, al contrario, se esse siano invece espressione dell’io individuale.
Inoltre ci chiediamo quale sia, sotto questi profili, il rapporto appunto “sostanziale” tra il sé interiore e l’ io individuale (se cioè essi siano tra di loro differenti o non siano invece identici), fatto salvo l’ego empirico (detto anche, come vedremo, āhaṃkāra) che, invece, è certamente mera espressione della materialità sensoriale e/o mentale, legato com’è alla sola soddisfazione pura esemplice del piacere e del benessere soggettivo, con tutto ciò che chiaramente ne deriva e dunque interamente ed esclusivamente proiettato nella prakṛti.
E ancora, in merito al secondo quesito, come accennavamo prima, ci chiediamo meglio: forse il sé interiore di ciascun individuo (e dunque all’interno dello stesso genere sostanziale) varia qualitativamente e quantitativamente nella materialità del creato, pur essendo esso sempre espressione sostanziale e qualitativa di Brahman (a dimostrazione proprio della Sua infinitezza espressiva che si sviluppa non solo nella prakṛti ma anche, appunto, nell’ātman) oppure questo sé interiore è, al contrario, sempre qualitativamente identico nella molteplicità degli individui esistenti nel presente, nel passato e nel futuro e dunque ciò che poi noi conosciamo quotidianamente sono solo le espressioni degli io individuali?
Indubbiamente, con l’intento, come dicevamo, di voler individuare soprattutto le problematiche e con esse tracciare una possibile linea di ricerca, ciò che possiamo iniziare ad osservare nella nostra speculazione filosofica è che la creatività e la fantasia sono alcune delle qualità caratterizzanti proprio l’io individuale. Esse, cioè, offrono all’io individuale la possibilità di distinguersi dagli altri io individuali, anche se, appunto, non è ben chiaro se poi questo “io” sia espressione diretta (e in via di possibilità materiale) dell’ātman, se sia addirittura invece espressione di una necessità dell’ego individuale di realizzarsi nel creato o, in ultimo se esso non sia piuttosto proprio, utilizzando la chiave di lettura weiliana, una metaxù di collegamento tra l’ātman e l’ego, ossia tra la spiritualità e la materialità pura, tra il puruṣa e la prakṛti, tra il creatore e il creato, punto ulteriore da cui potrebbe essere dunque possibile partire per una ricerca spirituale interiore del soggetto, e da cui noi stessi potremmo partire per speculare filosoficamente tali suindicati rapporti. Sotto questo profilo ed in merito alla terza opzione pensata (verso cui, in verità, siamo al momento più orientati), potremmo identificare l’io proprio come «il riverbero dell’atman-costante», definito anche come Jīva. In altri termini, per utilizzare la definizione data da Stefano Piano, potremmo definirlo come l’elemento indicante, «appunto, il nucleo intimo dell’identità di ciascuno, il nocciolo di puracoscienza cui si sovrappongono le incrostazioni della personalità e del carattere», la coscienza individuale legata alla materialità.
Più profondamente allora l’ “io-Jīva”(così potremmo definirlo per sottolinearne la figura di medietà tra la sostanza e l’ essenza) potrebbe essere, seguendo la famosa chiave di lettura weiliana, la “mediazione” tra l’ātman e l’ego, o, per dirla in altro modo, tra il puruṣa e la prakṛti umani, e sarebbe dunque proprio attraverso una sua sempre maggiore “identificazione” che ciascun essere umano potrebbe intraprendere il suo cammino di trascendenza dall’ego materiale verso il proprio sé interiore “puro”.
In sostanza ci chiediamo a questo punto qual sia il vero senso dell’io, qual sia cioè il suo «principio di individuazione» o, per dirla in altri termini, il suo “asmitā” da cui nascerebbe proprio, per esasperazione ed erroneamente, la visione di una distinzione “separatista” tra puruṣa e prakṛti che determinerebbe, con la nascita dell’ego empirico nelle singole creature del creato, la distinzione individuale dell’io dal sé interiore o ātman (si parla, sul punto anche di jīvātman, proprio a sottolinearne l’identità con quest’ultimo).
A tal proposito, nella cultura vedica si parla appunto di ahaṃkāra, ossia, come lo definisce Stefano Piano, dello «stadio in cui si trova la materia (...) quando toccata dall’impulso dell’evoluzione, passa dallo stato di mahat (cioè di massa energetica) a quello di massa unitaria, apercettiva, ancor priva di esperienza personale, ma già con l’oscura coscienza di essere un ego». L’ahaṃkāra.appare dunque, come sostiene analogamente anche Swāmi Sūryānanda Sarasvatī Amadio Bianchi in uno dei suoi lavori, come una forza che unisce, come metaxú, prakṛti e puruṣa, al pari dell’io, sua derivazione, che unirebbe di fatto, nella sua evoluzione materiale, l’ego puro e semplice (legato esclusivamente alla materialità e all’empirismo) all’ātman. Infatti, l’ “io-jīva”, quale nucleo identificativo correlatore tra i due termini “ego” (che possiamo tradurre in sanscrito anche comeasmitā) e “ātman”, avrebbe nella sua essenza non solo la prakṛti materiale ma anche il puruṣa spirituale, fungendo proprio “da ponte” di collegamento e correlazione delle due sostanze, quella materiale (in assoluto) e quella spirituale (in assoluto). In altri termini, l’io-jīva “starebbe nel mondo”, espresso nella e mediante la prakṛti attraverso tutti e cinque gli involucri che lo “avvolgono” (kośa), ma “non sarebbe del mondo”, appartenendo egli, qualitativamente come “raggio” dell’ātman di Brahman, a puruṣa. Pertanto, potrebbe essere proprio l’io-jīva che permetterebbe all’individuo di staccarsi dagli interessi dell’ego materiale per fargli guardare “oltre” e collegare (o, meglio, ri-collegare) così l’essere umano direttamente all’ātman divino, elemento quest’ultimo, come sappiamo, già contenuto nel creato e dunque anche nell’essere umano.
Un cammino di trascendenza umano che, secondo la Weil, avverrebbe mediante il processo di “dis-creazione” in cui appunto, mediante l’io, la persona si “distacca” dal materialismo corporale e mentale (interiormente rappresentato, appunto, dall’ego), per conoscere ed avvicinarsi sempre più, mediante l’io, alla parte spirituale e divina (ātman) che è già dentro di sé. In altro modo, seguendo il pensiero weiliano sulla metaxú, occorrerebbe cercare di individuare sempre quell’ elemento di correlazione (nel nostro caso, questo elemento potrebbe essere appunto l’io) che abbia di entrambi i termini (nel nostro caso ego e ātman), per permettere il passaggio dall’uno.all’altro estremo (ovviamente tutto ciò anche a discapito dell’elemento mediatore, che, con il passaggio, verrebbe oltrepassato).
La “dis-creazione” (o “de-creazione”) weiliana, che consiste come noto in uno sradicamento interiore ed esteriore, materiale ed immateriale, dal “velario” dell’apparenza e dalla “pesantezza materiale”, come scrive la stessa Weil, è stata nel contesto orientale definita anche come la “morte corporale del soggetto”, il quale, attraverso diverse procedure e modalità yogiche (come ad esempio “l’azione senza aspettativa”) portate all’estremo dell’ascetismo ed in verità destinate solo a pochi, effettua proprio il “distacco” individuale totale dalle impressioni sensoriali e dal desiderio (niṣkāma karma) e la presa di distanza totale dal cosiddetto “chiacchiericcio mentale”, per ritrovare dentro di sé e individuare nel creato stesso, appunto, il divino sottendente ogni cosa (l’ātman nel pensiero vedico, l’ “Anima del mondo” nel pensiero platonico), che verrebbe appunto espanso a discapito prima dell’ego e poi dello stesso io mediatore.
Una seconda osservazione, che indubbiamente possiamo fare, supportati ancora una volta dagli studi misterici greci (in primis da Platone) e dai testi vedici fondamentali della tradizione yogica (sipensi alle Upaniṣad, ma anche la Bhagavad Gītā e agli Yoga Sūtra di Patañjali), è che, innegabilmente, tutto il creato (anche se, appunto, non sappiamo con certezza qualitativamente e quantitativamente come) è imperniato di ātman (o, se vogliamo, per dirla in altro modo, di sé, di puruṣa, di anima), di quell’essenza divina, cioè, che possiamo anche definire come consapevolezza o coscienza interiore. L’essere umano, quindi, che comprende la presenza dell’ātman nel mondo ed in se stesso, può procedere verso il suo cammino di trascendenza che lo porterà sempre più ad individuarla. Ma quali sono le modalità di questo suo processo, come cioè può avvenire la sua trascendenza dalla materialità verso la sostanzialità che comunque la sottende?
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo prima cercare di capire meglio la qualità del sé (del puruṣa, dell’ātman o appunto dell’Anima del mondo), quesito che inevitabilmente ci riporta alla seconda domanda topica che ci chiedevamo prima, ossia se il Creatore, di là della sua creazione, sia e resti anche qualcos’altro, e cosa sia, nel caso, questo “qualcos’altro”, oppure se Egli si esprima e si esaurisca totalmente nel suo creato e/o nelle sue possibili metaxú (di diverso genere) e nei suoi “avatāra”, ossia nelle sue “metaxú viventi” (si pensi, sotto questo profilo, non solo ai 10 avatāra vedici e alle svariate metaxú misteriche greche, intellettive e sentimentali, individuate da Platone e dagli altri “iniziati”ai Misteri, atte a permettere di conseguenza la “de-creazione” umana, ma anche, ad esempio, alla più recente figura cristiana di Gesù, “avatāra-metaxú” appunto tra Dio e uomo, quali incarnazioni viventi del divino sulla terra per ristabilire l’ordine cosmico venuto meno) che, come dicevamo, possono offrire all’uomo, appunto, la strada successiva per la sua trascendenza spirituale (con gli avatāra si tratta in sostanza di una “discesa” concreta della divinità, nel mondo e nell’uomo, per permettere all’uomo stesso, poi, la sua consequenziale “ascesa” verso il cielo e la divinità, indicandogli loro la modalità, attraverso i principi da loro espressi e/o il modello della loro stessa vita).
La Bhagavad Gītā, in merito al nostro questito, è molto chiara, dedicando all’argomento specifico, un intero capitolo, esplicitamente intitolato: “Il signore è superiore alla creazione”. Innanzitutto, sul punto, possiamo ipotizzare la differenziazione tra creato e Creatore. Brahman appare infatti.come espresso nell’immanenza, attraverso la prakṛti, ma comunque come non identico all’immanenza stessa, attraverso la co-presenza in essa di puruṣa e di ātman che, secondo il pensiero vedico, vivono “oltre” quella. Come osserva sul punto Radhakrishnan nella sua introduzione alla Bhagavad Gītā, «Dio e anima sono una sola realtà, non perché siano identici, ma perché Dio penetra nell’anima e vi stabilisce la sua sede. Egli costituisce la guida interiore, antaryāmin, che risiede nella profondità dell’anima e, come tale, è il principio del suo vivere. Tuttavia immanenza non è identità. Nell’eternità come nel tempo la creatura rimane distinta dal suo Creatore». Osserva a proposito anche Icilio Vecchiotti che, «dal punto di vista dottrinale, attenzione particolare merita la parola tatam, che ricorre varie volte nel contesto» della Gītā. Essa, «semanticamente, suggerisce piuttosto che l’idea di diffusione (...) quella di espansione, ossia il moltiplicarsi in determinate forme, conservando però la propria unità originari, che diventa unità concreta di quel molteplice (...). Si può quindi, nel caso, parlare di un effondersi più che di un diffondersi», proprio legandoci al principio di Non-dualità della Realtà “Unica, senza una seconda”, sotto l’aspetto coincidente tra puruṣa, ātman e Brahman, sostenuto dall’Advaita vedānta. Dio appare dunque come Realtà fondante ma allo stesso tempo «trascendente» lo stesso creato, il suo elemento regolatore e, allo stesso tempo, il suo «principio ultimo». L’esistente dunque è un “estendersi della sua manifestazione”.
Rileva a gran voce Radhakrishnan, come, appunto, «le forme divine (puruṣa) e la materia (prakṛti)» appartengano «a un tutto di natura spirituale», a Lui ricollegabile e come, in realtà, «mentre il mondo dipende da Brahman, il Brahman non dipende dal mondo». Ciò dunque rileva esplicitamente la superiorità del creatore rispetto al creato e, di conseguenza, il suo non esaurirsi nele con il creato stesso, benché appunto, come accennavamo, esistano alcune visioni teologiche, anche all’interno delle scuole vediche che, al contrario, sostengono la presenza del divino espressamente e unicamente nel creato e nel suo riprodursi e susseguirsi nel tempo, oltre la morte corporale stessa delle individuali sostanze. Esse, in altri termini, non pensano ad un creatore che, pur presente essenzialmente nel creato, sia comunque anche “altro” dalla sua creazione e che viva ed esista dunque, distaccato, “oltre” questa, ma ne individuano e testimoniano la presenza imperitura come espressamente e costantemente mescolata, unicamente a quella, nel tempo e nel susseguirsi e manifestarsi della creazione.
di Graziella Di Salvatore (Sarasvatī)
© TUTTI I DIRITTI RISERVATI










Commenti
Posta un commento